Mach_bands

Mach_in_Mach_bandsUn ritratto di Ernst Mach incastonato in un reticolo verticale che nasconde due profili di luminanza  utilizzati da Mach negli esperimenti pubblicati dallo studioso viennese nel 1865. Le bande di Mach si vedono meglio se si guarda l’immagine da lontano (composizione grafica di Nick Wade)
Le bande di Mach furono scoperte – come si è detto – da Ernst Mach, scienziato, filosofo e e storico della scienza, esponente  di spicco del “Circolo di Vienna”. Come altri scienziati e filosofi europei dell’epoca, Mach era interessato allo studio della percezione, soprattutto in  vista di una teoria della conoscenza che permettesse di andare oltre le concezioni metafisiche e, al tempo stesso, superasse il solipsismo e lo scetticismo delle teorie empiriste, coniugando riflessione critica e studio sperimentale della sensazione e della percezione. L’importanza per Mach di uno studio di questo tipo, al fine di superare il dualismo tra un mondo fisico esterno e un mondo interno psichico, appare chiaramente da queste parole tratte dalla sua opera classica, Analisi delle sensazioni e rapporto  tra fisico e psichico (apparsa per la prima volta in tedesco nel 1886, e poi molte volte riedita e tradotta in una varietà di lingue, tra cui l’italiano):
«Noi non sappiamo in effetti quale sia la controparte fisica della memoria e delle associazioni mentali. Tutte le spiegazioni tentate finora appaiono molto forzate. Da questo punto di vista sembra come se non ci sia alcuna analogia tra il mondo animale organico e il mondo inorganico. E’ però possibile che nella fisiologia dei sensi, l’osservazione psicologica da un lato, e l’osservazione fisica dall’altro, possano progredire a tal punto da venire alla fine a un punto di contatto; e che, per questa via, nuovi fatti possano essere portati alla luce. Il risultata di un ricerca di questo genere non sarà il dualismo, ma una scienza che, abbracciando sia l’organico che l’inorganico, rende possibile l’interpretazione dei fatti comuni ai due ambiti».

Questa affermazione di Mach ha un sapore profetico, e anticipa in modo incisivo l’atmosfera che ha dominato gli studi psico-fisiologici della visione a partire dagli anni ’50 del Novecento. Sebbene Mach abbia studiato sperimentalmente varie modalità sensoriali, lo studio della visione riveste un’importanza fondamentale nella sua opera. Egli scoprì il fenomeno delle bande che portano il suo nome  («per caso» – come egli osserva nel primo di una serie di articoli che pubblicò a partire dal 1865)  nel corso di studi di psicofisiologia visiva condotti in prevalenza con dischi costituiti da settori chiari e scuri di varia forma ed estensione, rotanti a velocità  tali da produrre una fusione dei patterns visivi (secondo una tecnica allora comunemente  usata, soprattutto negli esperimenti di fusione dei colori, tra cui quelli celebri di Maxwell).

Mach_band_1865

Usando l’uno o l’altro dei due dischi rappresentati nella parte superiore della figura qui sopra, Mach si aspettava, sulla base delle conoscenze relative alla fuzione delle immagini (in particolare la “legge di Plateau”) un effetto percettivo descrivibile dal grafico a (a sinistra in basso);  invece la sensazione, misurata con tecniche psico-fisiche, era meglio descritta dal grafico b (a destra in basso), perché nei punti di inflessione β e γ apparivano due strisce più chiare (che Mach visualizza nell’immagine 1c, in alto a destra (che è un’immagine percettiva, non reale).

A partire dalle sue prime osservazioni, lo studioso austriaco dedica al fenomeno molti studi sperimentali, e, nel tentativo di spiegarne le basi fisiologiche, svluppa una straordinaria intuizione: che nel sistema visivo il meccanismo alla base della visione spaziale sia il risultato di interazioni laterali antagoniste, che cioè l’illuminazione di una zona della retina produca l’inibizione delle zone circostanti, e viceversa. Rimando alla letteratura specializzata sull’argomento (e, in particolare, ai già citati libro di  Ratliff e capitolo di Adriana, oltre che a testi più recenti) per un’anal

isi, sia delle ricerche di Mach, che dei numerosi studi di varia natura su questo affascinante fenomeno percettivo.

Qui vorrei spendere qualche parola in più non tanto sulla scoperta di Mach, quanto piuttosto sulla “riscoperta” del fenomeno, anche perché in questa seconda storia entra a un certo punto sulla scena anche la nostra Adriana, che viene in qualche modo segnata dall’evento, al punto che la sua vita scientifica si dirige via via più decisamente verso lo studio dei processi visivi, piuttosto che verso quello dell’ottica fisica a cui si era inizialmente dedicata. 

Nella prefazione al suo libro, Ratliff parla abbastanza diffusamente della “riscoperta” delle bande di Mach fatta negli anni ’20 del Novecento dal grande fisiologo di origine ungherese, Georg von Békésy (premio Nobel nel 1961 insieme con Hartline). Chi vuole leggere l’intera storia (in inglese) può cliccare qui mentre io la riassumo brevemente per poi passare alla “riscoperta” che ne fece Adriana, nel corso delle sue ricerche post-laurea di ottica fisica all’Istituto Nazionale di Ottica di Arcetri. Békésy cominciò a interessarsi al fenomeno nel 1924, quando era studente all’Università di Budapest, allorché un astronomo  della stessa università gli mostrò una immagine telescopica nella quale egli aveva pensato di poter trovare evidenza della scoperta di una nuova stella binaria sulla base di righe visibili nell’immagine, ma – purtroppo – incomprensibilmente  assenti nell’immagine fisica (come aveva dimostrato  utilizzando un fotometro a fessura). Békésy confermò l’inesistenza fisica delle righe nell’immagine astronomica facendo ricorso a un diverso strumento, un refattometro,  di cui si serviva all’epoca per la sua tesi di dottorato. Questo strumento era stato perfezionato da Ludwig Mach, figlio di Ernst, e l’articolo relativo era stato pubblicato sugli Atti dell’Accademia Reale di Vienna, la stessa rivista sulla quale alcuni decenni prima il padre aveva pubblicato la sua scoperta delle bande visive. Rovistando tra le annate della rivista il giovane Békésy venne così per caso a conoscenza del fatto che il fenomeno era stato scoperto e studiato dal celebre scienziato viennese. Lascio alla lettura delle pagine di Ratliff un altro episodio interessante sempre narrato da Békésy (cliccate qui se siete interessati). Noto soltanto che, con le famose bande della sua gioventù, Békésy mantenne un rapporto molto duraturo. Un suo articolo sull’argomento fu pubblicato nel 1972, l’anno della sua morte. In questo articolo lo scienziato ungherese metteva in evidenza una singolare proprietà, legata al carattere percettivo – e non fisico – del fenomeno: il fatto che la larghezza delle bande non aumentava osservando l’immagine che le produceva con una lente di ingrandimento, mentre il resto dell’immagine stessa diventava più grande: cliccate qui se volete leggere l’articolo su questo altro aspetto “magico” del fenomeno)

Vengo ora a ciò che ricordo della “riscoperta” personale da parte di Adriana delle bande di Mach, riscoperta di cui purtroppo ho solo  ricordi frammentari, sebbene confortati da barlumi di memoria di altri suoi colleghi e allievi. Fu probabilmente una delle volte che discussi con lei dopo aver letto il libro di Ratliff e aver parlato della “riscoperta” di Békésy che lei mi disse che qualcosa del genere era accaduto anche a lei. Tento di ricostruire così le sue parole:

«Negli anni ’50, nell’Istituto di Arcetri mi avevano affidato il compito [forse era stato Giuliano Toraldo di Francia, di dieci anni più anziano di lei, sotto la cui supervisione Adriana aveva sostenuto  nel 1948 la tesi,  o il molto più anziano Vasco Ronchi,  1897-1988, fondatore e direttore dell’Istituto] di disegnare un nuovo obiettivo astronomico, e io mi misi  all’opera. Quando l’obiettivo fu pronto, si decise di provarlo. Si puntò il telescopio su cui era stato montato verso la volta celeste  [forse dal vicino Osservatorio Astronomico] e si fecero delle foto delle stelle. Potendo considerare una stella,  per la sua  enorme distanza, come un oggetto puntiforme, le caratteristiche dell’immagine corrispondente potevano fornirci informazioni utili sulle qualità ottiche dell’obiettivo che stavamo provando. Esaminando le immagini notammo,  nel pattern di diffrazione che circondava l’immagine del punto luminoso centrale corrispondente al corpo della stella, delle righe chiare e scure molto pronunciate, più di quanto ci si aspettasse. Decisi allora di analizzare le immagini con un fotometro, e mi accorsi che quei picchi di luminosità percepita, non avevano un corrispettivo immediato nella distribuzione fisica della luminosità nella foto. La cosa mi incuriosì e mi fece riflettere al divario che esiste tra mondo fisico e mondo percettivo. E da allora il mio interesse per l’ottica si orientò sempre di più verso le studio della visione. Fu solo solo qualche tempo dopo che venni a sapere che Mach quelle sue bande le aveva scoperte da tempo. Il resto lo sai…».

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Il viso di Adriana incastonato da Nick Wade nello stesso pattern visivo usato nell’immagine con Mach e le sue bande. Il ritratto di Adriana è tratto da una foto, già illustrata nella pagina precedente, scattata nel 2007 a Pisa da Christine Wade, in occasione della presentazione di un libro di Piccolino e Wade. Anche in questo caso per vedere le bande di Mach bisogna guardare l’immagine da lontano.

 

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Una foto della fine degli anni ’80, con Adriana insieme alla “gente” del Laboratorio di via San Zeno,  in una delle tante occasioni allegramente conviviali

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