Adriana

il 29 febbraio 2016 è morta Adriana Fiorentini, una grande scienziata

Adriana, signora della visione

Ad Adriana Fiorentini io devo molto, devo il fatto che in un certo momento la mia vita di ricercatore si è orientata verso una particolare direzione. Questo avvenne grazie a un suo gesto, fatto senza troppe forzature, con quella sua calma dimessa e aristocratica che era mille miglia lontana dalla mia (allora) giovanile e inquieta irruenza. Ero da qualche mese nel Laboratorio di Neurofisiologia del C.N.R. di Pisa e non mi sentivo attratto dai temi della ricerca sperimentale che dominavano allora il laboratorio, incentrati sullo studio della neurofisiologia visiva, troppo lontana dagli interessi che mi avevano accompagnato negli anni degli studi di Medicina alla Cattolica di Roma, focalizzati questi su una fisiologia apparentemente più vicina alla pratica medica. Un giorno che avevo espresso le mie insoddisfazioni ad Adriana (che allora chiamavo “dottoressa Fiorentini”, non riuscendo a darle del tu nonostante le sue costanti sollecitazioni in tal senso), lei per tutta risposta prese un libro dallo scaffale del suo piccolo studio, che dava sull’ingresso del giardino verso via San Zeno, e, con un leggero e benevolo sorriso, me lo porse dicendo. «Leggilo, è un bel libro e vedrai che ti farà amare lo studio della visione».

Il ricordo di quel momento si è poi impresso nella mia mente, probabilmente per l’azione – come dire – retroattiva di quanto quel gesto di Adriana ha rappresentato per la mia vita, e non solo di ricercatore. Il libro aveva un titolo principale solo in parte per me allora significativo, Mach bands, che veniva esplicato dal sottotitolo un po’ più illuminante: Quantitative studies of neural interactions in the retina. L’autore era un ricercatore americano, Floyd Ratliff, che aveva a lungo lavorato con Haldan Keffer Hartline, uno studioso che pochi anni prima, nel 1967 (la scena con Adriana si svolgeva – ne sono certo – nel 1971), aveva avuto il premio Nobel per i suoi studi sulle interazioni visive negli strani occhi di un singolare artropode, il Limulo (una specie di fossile vivente simile a un granchio, che ci viene  – come poi appresi – dagli invertebrati che popolavano la biosfera nel Triassico inferiore, oltre 200 milioni di anni fa). Si trattava, come mi resi subito conto, di un libro eccellente che lessi e rilessi diverse volte (fino poi ad acquistarlo per averne una copia personale): un volume che sviluppava con un linguaggio attraente, e allo stesso tempo con grande rigore (e con ampio ricorso al linguaggio matematico), l’idea che si potessero interpretare i fenomeni visivi nell’uomo sulla base di studi condotti sulle singole cellule nervose di animali il cui sviluppo evolutivo si era fermato a epoche remotissime (e – che qualcuno diceva allora – erano sostanzialmente ciechi). Il titolo principale del libro faceva riferimento alle “bande di Mach”, un singolare fenomeno percettivo, scoperto dallo scienziato e filosofo viennese Ernst Mach, che illustra come pochi l’affascinante imprevedibilità del processo visivo, e che, da allora, ha accompagnato tutta la mia vita di studioso sperimentale e di curioso osservatore della realtà del mondo visivo. Nel libro si parlava molto degli esperimenti sulle bande di Mach condotti da Adriana e dai suoi collaboratori all’Istituto Nazionale di Ottica di Firenze, e questo mi permise di scoprire che la persona con cui avevo il privilegio di condividere il laboratorio e di passare molto tempo in conversazioni che spaziavano sui più vari argomenti, era una delle autorità riconosciute a livello mondiale nello studio di questo fenomeno.

«Le bande di Mach sono delle linee chiare o scure percepite in prossimità del confine tra una regione del campo visivo illuminata in modo brillante e una regione poco illuminata» così esordiva un capitolo che Adriana stava allora scrivendo per un volume del prestigioso Handbook of sensory physiology (e che io lessi subito, appena fu pubblicato nel 1972). Dopo questo incipit Adriana scriveva «Queste bande sono un fenomeno soggettivo di contrasto: esse sembrano più chiare o più scure delle zone immediatamente vicine, sebbene la distribuzione fisica della luce non mostri alcun picco negativo o positivo nei punti dove le bande sono percepite». In altre parole, come Adriana illustrava con un’immagine e un grafico tratti dai suoi studi, le bande – chiare o scure che fossero – esistono nella nostra percezione, ma non nella realtà oggettiva. Sono dunque uno dei (molti) fenomeni che illustrano lo scarto esistente tra mondo percettivo e realtà fisica, e che offrono una chiave per la comprensione dei meccanismi operativi del sistema visivo (e più in generale dei sistemi sensoriali).

Bande di Mach Adriana 1972

Le bande di Mach, dalla prima figura del capitolo sull’argomento scritto da Adriana per l’Handbook of sensory physiology pubblicato dall’editore Springer di Berlino. A sinistra, le frecce con le lettere α e β indicano rispettivamente la banda chiara e quella scura. A destra, il grafico  superiore indica la variazione orizzontale della luminanza fisica, mentre il grafico inferiore descrive la variazione soggettiva della luminosità percepita.

Il capitolo scritto da Adriana descriveva in modo chiaro e preciso i vari aspetti del fenomeno e cercava di spiegarne la genesi sulla base delle conoscenze neurofisiologiche, mettendo comunque in rilievo le difficoltà che si opponevano a una piena comprensione dei meccanismi che ne sono alla base. «Ciononostante   – come Adriana concludeva al termine del suo capitolo – le bande di Mach sono ancora tra i più interessanti e stimolanti fenomeni della percezione visiva». “Interessanti e stimolanti” perché queste linee chiare e scure che non hanno un corrispettivo immediato nella realtà fisica, ma esistono in modo ben evidente nel sistema visivo di molte specie (dall’uomo a esseri molto primitivi come il Limulo, il che ci dà un’idea dell’importanza evolutiva dei meccanismi che ne sono alla base), queste bande di Mach sono praticamente onnipresenti nel nostro mondo visivo, manifestandosi quasi costantemente ai bordi delle ombre (e non solo). Per chi le sa riconoscere sono dunque una presenza costante, quasi un’ossessione, che perseguita e allo stesso tempo delizia l’osservatore. Sono nel mondo immediatamente attorno a noi (ne vedo tante ora sul muro della mia stanza, disegnate dal sole che penetra attraverso l’intelaiatura della finestra), sono presenti in immagini astronomiche (a volte creando anche complessi problemi di interpretazione; e un caso di questo genere fu – come Adriana mi raccontò un giorno – all’inizio del suo interesse per questo fenomeno – cliccare qui per conoscere qualcosa di questa storia ). Sono presenti anche nelle immagini delle eclissi di sole e di luna, e persino nelle immagini radiografiche. Le ho viste a Roma nella Vocazione di San Matteo di Caravaggio, e le vedo a volte nelle circostanze più imprevedibili (per esempio nelle sequenze di alcuni films di Hitchcock e non solo)

Bande di Mach__Palazzo Mosca Pisa

Bande di Mach nella foto del muro di un palazzo di Pisa, scattata il giorno in cui è stato scritto questo testo (12 marzo 2016). In questa immagine appaiono bande sia in una transizione di luminosità nella scala del grigio (a sinistra) , che in una tonalità ocra (a destra).

 

Mach Piazza Garibaldi

Una foto aggiunta il 4 maggio 2016, e  presa da Piazza Garibaldi a Pisa, che inquadra il Ponte di Mezzo e – oltre l’Arno – gli edifici del Comune e dell’Archivio comunale. Si notino le evidenti bande di Mach nell’ombra proiettata sul suolo della piazza dall’edificio del Casino dei Nobili.

Il libro di Ratliff ebbe su di me l’effetto che Adriana sperava, e da allora ho avuto pochi dubbi sul percorso di neurofisiologo visivo che mi si prospettava, e che poi si concretizzò nello studio dei circuiti visivi della retina dei vertebrati, all’inizio grazie alla collaborazione con Luigi Cervetto, appena rientrato (siamo nel 1971) dagli Stati Uniti dove aveva messo a punto una nuova preparazione sperimentale adatta allo studio in vitro dei neuroni retinici; e poi durante un lungo soggiorno in Francia che avrebbe segnato per sempre la mia vita scientifica. Le bande di Mach mi hanno sempre accompagnato, e con esse altri straordinari fenomeni visivi che Adriana mi aiutava a conoscere, a volte nei momenti di riposo tra un esperimento e l’altro. Tra questi fenomeni, quello dei colori illusivi, e in particolare le ombre colorate che avevano affascinato naturalisti, fisici, artisti, tra i quali personaggi come Buffon, Goethe, Monet, e che erano state rivelate in modo straordinario da un singolare esperimento condotto per la prima volta nel 1794 da Benjamin Thompson, Lord Rumford, (esperimento che Adriana mi aveva fatto conoscere e che – seguendo lei – non mi stancavo di presentare ai miei studenti quando cominciai a insegnare: clicca qui se volete sapere qualcosa di questo esperimento).

ombra blu Asciano

L’ombra blu di una canna fotografata al tramonto su un muro bianco di recinzione di una casa della campagna pisana. Quello delle ombre blu è un fenomeno a lungo conosciuto dai pittori e che rivela alcuni dei  meccanismi neurofisiologici alla base della costanza della percezione dei colori, rispetto a un mondo visivo in cui la composizione cromatica della luce solare si modifica in modo importante nel corso della giornata.  Il muro continua ad apparirci bianco al tramonto, nonostante che la luce solare si arricchisca di toni rosati. Il riaggiustamento percettivo che è alla base di questa costanza percettiva ha come inevitabile side effect la predominanza di tonalità blu nelle zone dove la luce solare non arriva, cioè in corrispondenza delle ombre. Il fenomeno era noto già a Leonardo, ma sono stati soprattutto gli impressionaisti – e in particolare  Monet – a sfruttarlo a fini artistici (vedi qui sotto).

 

Monet covoni effetto neve al mattino
Uno dei quadri di Monet della serie dei Pagliai dal titolo Effetto neve al mattino,  in cui appaiono le ombre blu. Per i pittori impressionisti l’intensità luminosa e la tonalità cromatica delle ombre rappresentava una delle tecniche principali per suggerire il momento e le condizioni della giornata in cui una scena veniva dipinta. Monet ne fece ampio uso in molti dei suoi quadri e – in particolare – nella celebre serie della Cattedrale di Rouen – oltre che in questa dei Pagliai (Meules in francese), realizzata in circa 25 vedute tra il 1889 e il 1891.  In natura le ombre azzurre si manifestano soprattutto all’alba e al mattino in giorni di cielo chiaro, perché si realizza allora la condizione essenziale per il loro manifestarsi, la presenza di due illuminanti di diversa composizione cromatica: in questo caso il cielo con maggiori tonalità azzurre e la luce solare con prevalenza di tonalità giallo-arancio. Perché l’azzurro si manifesti al meglio è però necessario che l’ombra si proietti su una superficie bianca. Questa è la ragione per cui le ombre azzurre sono comuni nei giorni di neve, come in questo quadro del pittore francese.

Tutto questo affascinante mondo visivo si era aperto ai miei occhi e alla mia intelligenza grazie al gesto di Adriana, quando mi aveva prestato la sua copia del libro di Ratliff (quasi certamente con la dedica dell’autore), e questo aveva contribuito – come ho detto – a orientare verso lo studio della visione la mia attività di neurofisiologo sperimentale.

Sebbene alcuni degli esperimenti che ho condotto in Francia potessero avere una qualche possibile relazione con i meccanismi alla base del fenomeno scoperto da Mach, e nonosatente ne parlassi costantemente ai miei studenti di Ferrara, devo riconoscere però che io non ho mai studiato direttamente queste strane linee chiare e scure. E devo anche dire che, a dispetto della vicinanza con Adriana negli anni trascorsi nel Laboratorio di Neurofisiologia del C.N.R. di Via San Zeno, io non ho mai praticamente condotto attività sperimentale insieme a lei. Questo è avvenuto in effetti solo nel caso di una ricerca a molti autori sugli effetti visivi di farmaci dopaminergici, di cui però conservo solo un ricordo indistinto. Ricordo invece in modo molto nitido una piccola collaborazione diciamo di tipo tecnico che Adriana mi chiese, molti anni fa, all’alba della tecnologia dei computer. Era arrivato in laboratorio un grosso calcolatore da tavolo (l’Olivetti 101), che si programmava con delle schede magnetiche, e che permetteva di fare calcoli abbastanza semplici (erano piuttosto limitate sia il numero di istruzioni che l’apparecchio poteva accogliere che la sua potenza di calcolo). Era però possibile il calcolo all’istante (ora diremmo “online”) di alcuni parametri statistici sui dati che venivano via via immessi (come la deviazione e l’errore standard, e alcuni indici di significatività delle differenze). Adriana doveva allora eseguire delle misure psicofisiche e, rendendosi conto dell’utilità di avere una valutazione immediata dei risultati sperimentali che avrebbe ottenuto, mi chiese di aiutarla, dal momento che – preso dalla novità della cosa – io mi ero dato da fare per imparare a programmare il nuovo apparecchio. Ecco, ora mentre scrivo, ritrovo nel mio ricordo quel tempo in cui, nel suo studio, trasformato per l’occasione in laboratorio, lei mi dettava le misure che andava ottenendo, e io rapidamente calcolavo i parametri statistici. Credo che alla fine fummo entrambi molto soddisfatti dell’esperienza dell’uso di uno strumento che ora riterremmo primordiale (attualmente gli stessi calcoli si eseguono agevolmente e rapidamente con uno smartphone).

 

Olivetti_programma101

Il calcolatore Olivetti programma 101 utilizzato per gli esperimenti di Adriana. Si trattava del primo calcolatore programmabile da tavolo, uno strumento per l’epoca rivoluzionario.

Insomma, a parte pochi episodi come questo, in effetti io non ho mai lavorato direttamente con Adriana; ciononostante (o forse paradossalmente proprio per questo) la sua influenza su di me è stata importante. È stato il rapporto proficuo tra una scienziata affermata, dai modi raffinati dovuti all’educazione milanese e alto-borghese e un giovane un po’ rozzo, venuto dal Sud, con un grande desiderio di imparare e una grande passione per la cultura e la scienza. Il nostro rapporto di scambio culturale è continuato, anche se in una forma più distante, quando ho lasciato il laboratorio di Via San Zeno per andare a insegnare a Ferrara. Parlavamo sempre di bande di Mach e di ombre colorate quando ci incontravamo, qualche volta anche a Ferrara, dove più di una volta ho invitato Adriana per tenere alcune lezioni che avevano riscosso un grandissimo interesse, al limite dell’entusiasmo, tra i miei studenti e colleghi, per la straordinaria chiarezza e la grandissima scienza e cultura.

Negli ultimi tempi parlavamo spesso di Galileo, uno dei grandi amori di Adriana. Per lei, cattolica molto convinta ma dallo spirito critico formatosi alla scuola della scienza sperimentale, la vicenda del grande pisano rappresentava un momento fondamentale di riflessione per il rapporto tormentato tra il grande pisano e la Chiesa del suo tempo. Fu proprio per parlare a lungo di un esperimento visivo di Galileo che ebbi in anni recenti un lungo colloquio con Adriana, nella sua casa di via Santo Stefano (penso nel 2013:  Adriana  usciva allora poco da casa per i postumi di una caduta). Facevo appello alla sua straordinaria competenza di ottica fisiologica per cercare di risolvere alcuni aspetti poco chiari del metodo straordinariamente efficace usato dal grande scienziato per dimostrare che la grandezza apparente delle immagini di alcune stelle era molto inferiore rispetto a quella misurata con complesse attrezzature da Tycho Brahe e dai grandi astronomi dell’epoca . Un esperimento che permise a Galileo di “salvare” il sistema copernicano dinanzi alle critiche dei sostenitori della cosmologia tradizionale, tra cui il nemico dichiarato dello scienziato toscano, il gesuita Christoph Scheiner (cliccate qui se volete conoscere i dettagli dell’esperimento da un capitolo del libro Galileo’s  Visions che ho scritto nel 2014 insieme con Nick Wade).

Wade and Fiorentini 2007

Nicholas (Nick) Wade e Adriana in piazza Dante a  Pisa, nel 2007, nell’occasione della presentazione del libro che ho scritto in collaborazione con Nick, grande esperto di illusioni visive e – come me – molto appassionato di storia della scienza:  Insegne ambigue, percorsi obliqui tra storia, scienza e arte /  da Galileo a Magritte (foto Michel Meulders)

Ho poi rivisto Adriana a Marina di Pisa, nella Residenza dove aveva deciso di trascorrere l’ultima parte della sua vita. Ormai lei sembrava aver deciso di chiudersi al mondo e alla scienza per conquistare una piena pace interiore ma –  a dispetto della serenità che lei affermava in tutti i gesti di questa sua nuova, e purtroppo breve, esistenza –  io fui molto rattristato dal pensare che una grande studiosa, conosciuta nel mondo per i suoi contributi alla fisiologia visiva, che spaziavano dalla bande di Mach all’analisi degli aspetti spazio-temporali della visione, dallo sviluppo della visione nei bambini alla plasticità neuronale, si stava separando dal mondo in modo così deciso e irrevocabile. Ora che Adriana non è più tra noi, e che manca a me come a molti altri, e tra questi a tanti studiosi in tutto il mondo, io non posso staccarmi dal ricordo della scienziata colta e signorile, che per me rappresenta, più di ogni altro, quella straordinaria fucina di scienza e vita che è stato per tanti il Laboratorio di Neurofisiologia del C.N.R. di via San Zeno.

Marco Piccolino, 12 marzo 2016

 

Il Laboratorio di via San Zeno era anche un luogo dove, oltre a fare esperimenti e  a discutere di tante cose, e a volte a stare allegramente insieme, giocavano i nostri bambini, e noi – a volte – con loro…

 

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